Pannelli Sociali

Per una sociologia agita ed agente

Una prospettiva scomoda (di Barbara G.V. Lattanzi)

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Trovandomi ancora una volta a riflettere sulla pratica professionale della sociologia e sulla funzione del sociologo sul campo, come chi insegue un miraggio da troppo tempo, mi trovo a pensare alle tante occasioni perdute dalla nostra categoria professionale, alle tante necessità tradite del nostro paese di fronte alle sfide che ci pone la crescente complessità: sarebbe necessaria l’istituzione del sociologo scolastico per far fronte ai fenomeni del bullismo e di integrazione, sarebbe necessario il sociologo dell’inclusione per le categorie fragili nel settore dell’immigrazione, della riabilitazione, dell’accompagnamento al lavoro, sarebbe necessario il sociologo in ambito psichiatrico, per portare avanti la sempre attuale “rivoluzione basagliana” sorta in un periodo d’oro in cui il nostro paese fu – una volta tanto – un apripista all’avanguardia di una nuova concezione antropologica del disagio; ecc.

Per comprendere il fallimento della nostra figura professionale si fa spesso riferimento alla storia della cultura accademica interna ai corsi di laurea e alla scarsa propensione pratica dei nostri docenti, troppo presi a ammantarsi di un’aurea intellettuale, e al loro scarso interesse per il destino dei laureati.

Altro discorso è l’autocolpevolizzazione. Noi sociologi “non siamo stati all’altezza”, “i laureati in sociologia sono impreparati”, ecc., frasi che appaiono come una sorta di proiezione delle proprie mancanze e della propria scarsa propensione a fare categoria sulle nuove generazioni.

Nulla di tutto ciò porta a una soluzione.

Altri sterili discorsi riguardano il tentativo di perseguire strade obsolete, non più percorribili, che fanno riferimento a sistemi o pratiche degli anni 70-90: il mito della libera professione ormai ampiamente sfatato dallo sfruttamento delle partite iva false e simili prassi, l’insistenza a focalizzarsi sul sociologo del sistema sanitario a fronte del mutamento normativo e organizzativo che tale sistema ha subito, nonché proposte che nascondono la concezione neoliberista dell’inventarsi un lavoro e sapersi vendere sul mercato (secondo cui un venditore di fumo è più professionale di un insegnante o un operaio).

Personalmente propongo, come antidoto a queste “cattive pratiche” e al fine di evitare di lanciarsi su binari morti, un momento di riflessione sulla categoria di cui facciamo parte. Passare dall’individualismo nichilista che tanto ci ha danneggiati alla creazione di un “noi” in cui ciascun sociologo si impegna a riconoscere e a valorizzare gli altri, il titolo e la formazione ricevuta.

Io non credo che i neolaureati siano impreparati, non più di quanto lo siano i ragazzi e le ragazze sfornati da altre facoltà. Personalmente so di aver ricevuto un corpus di conoscenze teoriche in grado di orientare la pratica, strumenti per l’analisi e la comprensione (nonché la capacità di distinguere tra analisi e comprensione). Queste stesse competenze ho potuto cogliere negli altri sociologi con cui ho avuto occasione di collaborare o anche solo di confrontarmi. Non riconoscere ciò è già un assurdo atto di svalutazione i cui motivi non comprendo. Per il resto ogni lavoro si impara sul campo, per mezzo dell’attività pratica: l’integrazione nei gruppi di lavoro, la relazione con l’utenza, le istituzioni e la comprensione dei problemi e delle disfunzioni, sentire anche sulla propria pelle gli attriti e la fatica mentale. Di sicuro si è fallito nell’inclusione occupazionale che consente la formazione sul campo, e questo ha dato luogo a uno svilimento dei nostri studi e a una negazione delle nostre potenzialità. Ciò che preoccupa è che molti sociologi continuino ad esserne complici.

Rispetto agli altri laureati il sociologo possiede l’immaginazione sociologica in maniera più sviluppata e applicabile, strumento essenziale per poter comprendere e intervenire nei sistemi complessi. Questo professionista intende i meccanismi e la funzione della comunicazione, intuisce quel legame sottile e spesso latente tra il disagio individuale e le iniquità sociali, possiede capacità riflessiva in grado di generare prospettive critiche. E forse è proprio questo ciò che fa paura: la capacità di individuare i malfunzionamenti e di proporre strategie di soluzione come mutamenti di sistemi. Ma questo significa mettere in crisi prassi consolidate e posizioni di potere. Pensate ai preziosi e appassionati contributi dei colleghi Marco Omizzolo e Aboubakar Soumahoro contro il caporalato e pensate che ognuno di noi, dal ricercatore in macrosociologia al microsociologo, è in grado di scavare nei meandri delle relazioni di potere e nei meccanismi occulti che impediscono l’emancipazione.

E’ errato pensare che scontiamo i peccati dei “compagni che sbagliarono” alla facoltà di Sociologia di Trento negli anni di piombo, non sono stati quei pochi figli della loro epoca a mettere in crisi lo status quo. A ben vedere le loro azioni violente contribuirono semmai a tacitare i moti di ribellione e a giustificare l’irrigidimento del sistema. Ciò che fa paura sul serio è il tranquillo ricercatore che analizza, il funzionario che comprende la valenza dei propri atti amministrativi e pone problemi alle istituzioni, il sociologo relazionale che individua i loop comunicativi, il doppio legame, le violenze occulte e sistemiche che generano capri espiatori, emarginazione e incapacitazione.

Una prospettiva scomoda quella del sociologo, ma proprio per questo sempre più necessaria.

Barbara G.V. Lattanzi


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