Pannelli Sociali

Per una sociologia agita ed agente

Anziani strutturati. Dal micro al macro per una sociologia di relazioni

Social

Frammenti di vita quotidiana in Residenza Protetta

Quando arrivo nella Residenza Protetta, loro, gli anziani, mi attendono come sempre aspettandosi da me notizie sul cosa succede là, fuori.

Passo un’oretta con loro, per lo meno con i più integri cognitivamente e trattiamo di vari argomenti presi dai vari quotidiani. Ma, ora, l’argomento di cui preferiscono parlare è, il COVID, il virus.

Noi operatori abbiamo tutti la mascherina, che gli anziani interpretano come segno di rispetto nei loro confronti, mentre loro, essendo in una situazione protetta, quindi con pochi contatti provenienti dall’esterno, ne sono privi anche se, oramai sembra essere divenuta in certi ambiti un segno di distinzione quando non di appartenenza, nel bene o nel male.

Mario (nome di fantasia e lo saranno tutti, d’ora in avanti), ad esempio, è un anziano cui non piace relazionarsi con i suoi pari: “Starò lì con tutti quei vecchi che non capiscono.. a parlare, parlare di cosa!?” – mi dice Mario risoluto. Negli effetti, lui in genere va nell’ufficio della direzione, si siede in una seggiola, per poi addormentarsi poco dopo. Pure Mario ha chiesto per sé la mascherina, seppur la sua richiesta pare più dovuta ad un segno di distinzione dagli altri, che per un effettivo beneficio. Insomma, Mario, con la mascherina che è oramai divenuta un simbolo, pare con quel simbolo voler comunicare la sua similitudine a noi e la conseguente estraneità dagli altri. E’ pure questo, d’altronde, un distanziamento.

Fiorella, è invece una signora, di qualche anno più giovane degli altri, oligofrenica, timida, abitudinaria e metodica, pur essa, seppur partecipi a varie attività, non ama i contatti e non si relaziona facilmente con gli altri. Devo dire che, a me concede un’apertura che ad altri non concede, quando ad esempio deve prendere l’ascensore per scendere in sala da pranzo, prima fa scendere tutti, quando poi è rimasta da sola, scende pure lei. Se rimaniamo io e lei, con me scende senza problemi. Ricordo che, ad inizio pandemia, arrivando in struttura, con la mascherina sul volto, lei, insolitamente sorridente e loquace mi disse: “Fuori c’é <<la malattia>>, voi di fuori dovete mettere la maschera, noi no perché qui, siamo sicuri, qui non c’é la malattia.” Fui stupito nel vederla per la prima volta così insolitamente loquace, qualcosa era scattato in lei. Fiorella è una signora di una certa età oggi ma che sin da bambina si porta dietro un piccolo deficit che l’ha sempre fatta sentire diversa dagli altri, tanto da starsene in disparte, rispetto al gruppo dei suoi pari, sin da allora. A volte, seppur con una certa reticenza, mi confida questa sua diversità rispetto agli altri, di cui comunque ha consapevolezza: “Io non sono come gli altri” – mi confidava nel momento in cui provavo a conversare con lei. Però, qualcosa era cambiato ora, lei ora faceva parte dei “sani”, nei nostri confronti, la mascherina era vista come uno stigma e ciò le consentiva di vedere in noi i “malati” i diversi…gli “strani”, noi che venivamo da fuori. Ora lei invece era con loro, il gruppo dei sani protetti da un infausto fuori pericoloso. Quel giorno, Fiorella scese al piano di sotto assieme agli altri ed era, per la prima volta sorridente e loquace.

In genere, sotto questo aspetto lavorativo, in cui vado a gestire situazioni complesse e conflittuali, oltre che fragili, data anche la metodicità che contraddistingue molti di questi anziani in età avanzata ad iniziare dal “posto” in cui stazionano, e data anche la loro ridotta mobilità, non uso un setting gruppale come farei, ad esempio, con un gruppo di sensibilizzazione. Parto in genere dal prendere atto della situazione, per poi facilitarne l’espressione al suo interno.

In una situazione, ad esempio, trovo la maggior parte di loro seduti attorno ad un grande tavolo. In un’altra, li trovo ai bordi di una stanza.

“Come va oggi con ‘sto virus? Ha visto? I contagi vanno su…”. Sono oramai queste le domande di rito con cui, alla mia presenza, prende l’avvio un discorso dal quale, essi stessi vogliono rassicurazioni, conferme, risposte. La cosa che pare dar più senso al tutto e che più d’ogni altra mi gratifica è, il sentirsi dire: “Venga, parliamone, così ci passa il tempo”.

Maria, una donna molto religiosa e credente, esordisce condendo il suo discorso di fantasiose suggestioni mistiche: “E’ stato il diavolo, trasformatosi in serpente, ad aver portato il virus per la nostra malvagità e solo la fede lo porterà via..” – “Ma stai zitta” – la interrompe Giovanna – “Sono tutte scemenze, io non vedo mio figlio da giorni e mio nipote non può più abbracciarmi e si mette a piangere, queste sono le cose serie!”

Luisa, che è la saggia del gruppo, liquidando il diverbio tra le due con un sorriso ironico, si rivolge a me con una raccomandazione: “Mi raccomando a voi, al vostro giudizio, fate quello che vi dicono, mettetevi le mascherine, non state vicini…mi raccomando perché, noi abbiamo visto la guerra, sappiamo fare sacrifici, sappiamo rinunciare, siamo stati senza mangiare pur lavorando tutto il giorno, voi certe cose non le avete vissute, avete avuto tutto ciò che chiedevate e lo avete avuto subito. Mi raccomando quindi, se voi vi sacrificate oggi, domani torneremo tutti a star meglio.”

Eraldo, che in maniera un po’ più distaccata prende parte al discorso di gruppo, girando per il corridoio con il suo deambulatore per poi, di tanto in tanto avvicinarsi al gruppo e sentire i vari ragionamenti, scuotendo la testa afferma: “Sono cambiati i tempi, oggi non sono come eravamo noi una volta, dovrebbero provare veramente cosa vuol dire avere fame…”.

Nel frattempo, Erminia, una signora che ancora tiene molto al suo aspetto fisico, che cura con attenzione, segue distrattamente i discorsi, raramente entra nel merito, ma di continuo chiede a me di spostare il tavolo più in giù di 10 centimetri per poi, qualche minuto dopo, chiedermi di riportarlo su di quei 10 centimetri. E’ pur questo un modo per chiedere attenzioni che, lei, egoisticamente, vorrebbe tutte per se, ma il virus occupa ora tutti gli spazi.

“Sono stati i cinesi!” – grida Evelina dalla sua poltrona un paio di metri più avanti. “I cinesi sono una razzaccia che mangia cose schifose e poi ci trasmettono tutte le malattie più brutte. Quando finirà ‘sta roba?”.

Giuseppe interviene dicendo che nel 1918-19 lui ha perso una zia con la Spagnola ma, continua, questa è peggio.

Ecco, questo spaccato di vissuto, di frammenti di storie di vita, magari condizionati dall’estrema drammaticità del momento e che impone barriere ad Ego verso Alter, che sostiene un reciproco distanziamento, che protegge, anche a livello sistemico una sfera intima e privata da una sfera pubblica, per quanto non possa essere esaustivo di una condizione, pone all’attenzione dei bisogni che gli anziani esprimono in svariato modo ed assecondando le varie specifiche condizioni che potremmo riassumere in bisogno di attenzione, di espressione, nell’accezione di uno spremere fuori, di relazione dunque. E per chi vive “sul campo” certe condizioni espresse sa che tutto prescinde da un Alter volto all’ascolto empatico che, per l’appunto, delinea un assetto relazionale.

Un passaggio dal micro al macro

Ricordo che agli esordi, nel momento in cui venne proposta una figura, non sanitaria, ma proveniente dal comparto, diciamo, sociale, quindi intenta a promuovere e facilitare espressioni in una logica di relazione, spesso assistevo ad una sorta di squalifica, quasi aprioristica, nei confronti degli anziani, tanto più che, la mia figura ed il servizio che andava ad offrire, erano ancora considerati dal sistema e dalla normativa di riferimento, un servizio non fondamentale, ma accessorio, un qualcosa in più insomma e di non fondamentale importanza. Non era raro il caso ad esempio in cui degli operatori mi dicevano allora: “Ma cosa vuoi fargli? Non capiscono! Quando li hai lavati, vestiti e nutriti, hai svolto le tue mansioni.” Emergeva in pratica un corpo svuotato di un Io esprimente ed in quanto tale, occupante uno spazio attraverso un peso. In questa accezione, un ingombro. Il mio Ruolo insomma era visto come una sorta di ciliegina collocata su una torta priva di sostanza ma evidenziata su una forma, ed in questo appagava le richieste di certe politiche adagiate su apparenze ed in cerca di consensi attraverso prassi strutturali in base alle quali, era l’anziano che avrebbe dovuto adattarsi alla struttura e non viceversa. Fortunatamente, nelle mie mansioni lavorative, indirizzate verso un sapere, un saper fare ed un saper essere è nel saper essere che quel Ruolo diveniva per me possibile di una interpretazione. Se infatti etimologicamente la parola ruolo deriva da “rullo” su cui l’attore di teatro può leggere le sue battute, ovviamente la cosa fa leva su quel “saper essere” summenzionato e che lascia spazio ad uno stile interpretativo del ruolo stesso e che il professionista soggettivizza attraverso uno stile suo proprio sulla base di valori, di risorse di cui dispone, di norme di riferimento e di finalità da perseguire, andando con ciò ad esprimere, per l’appunto, un assetto relazionale.

Fu qualche anno dopo che, con la L.328/2000 si propose un quadro normativo indirizzato ad una integrazione socio-sanitaria. Tornando al micro contesto di riferimento ed assecondando l’indirizzo normativo che, essendo un frame, richiedeva un supporto programmatico che lo riempisse di contenuti, che la vecchiaia poteva, doveva, essere assunta non più come una sorta di corpi malati da curare, quanto invece come una delle tante tappe della nostra esistenza, ed in questo ampliare lo sguardo, per il sociale avanzavano nuove opportunità d’aiuto verso l’anziano.

Vennero quindi costituiti gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS) che, assieme ai Distretti Sanitari costituivano nei territori l’accostamento delle due istanze, sociale da un lato e sanitaria da un altro, che avevano due diversi coordinamenti: il Coordinatore d’Ambito per gli ATS, ed il Dirigente Sanitario per i Distretti. Essi, riferendosi allo stesso territorio, dovevano integrarsi ad iniziare da un agire intenzionale e finalizzato al raggiungimento di un maggior benessere.

Oggi, passati 20 anni dalla proposta di integrazione, siamo ancora a disquisire se, Sociale e Sanitario debbano essere disgiunti, per lo meno in riferimento ai fondi dati al sanitario ed al sociale. Si evidenzia in pratica, una richiesta di relazione che però rimane insoddisfatta.

A mio parere, i due sistemi, sociale e sanitario, non possono essere disgiunti. Il sistema, in pratica, deve passare da sistema socio-sanitario, a sistema sociosanitario. Ciò detto, e seguendo un approccio relazionale, come lo chiamerebbe Pierpaolo Donati, occorre che la parte normativa, quella delle risorse, quella delle finalità orientative e quella valoriale, agiscano in maniera sinergica, non separata seguendo il paradigma AGIL parsoniano, che ne costruì l’assetto seguendo una linea struttural-funzionalista, ma agente in maniera sinergica, come suggerito da Pierpaolo Donati, che da Parsons nel caso prescinde, indirizzandosi però lungo una direttrice relazionale. Se si disgiunge dal sanitario il sociale, l’intero sistema perde quella intelligibilità che dovrebbe caratterizzarlo. Ad esempio, nel settore anziani e nell’analisi dei casi, se ci si sofferma al solo aspetto sanitario, o biologico, il sistema spesso si arresta su dichiarazioni che asseriscono che, la persona è in età avanzata, con patologia progressiva e degenerativa e poco può la medicina su di essa. Quindi si arresta a misure contenitive o palliative che hanno un aspetto autoconsolatorio quando non lesivo dell’autonomia. Occorre allora allargare lo sguardo verso l’ambiente e verso la mente di quella persona chiamando a progettare su di essa componenti provenienti dal comparto sociale.

Occorre quindi, sempre per seguire il paradigma relazionale di Pierpaolo Donati, muoversi verso l’asse G-L che lui chiama “refero” e che mira a connettere motivi di valore con intenzioni pratiche e simultaneamente connetterlo all’asse A-I che lui chiama “religo” e che si indirizza al connettere risorse e norme con strumenti adattivi ed operativi e che definisce l’asse delle connessioni strutturali con quelle sociali. Come evidenzierà Donati, in una sociologia matura, le 4 componenti A-G-I-L per esprimere in concreto una relazione devono lavorare assieme simultaneamente.

Per chiudere con un esempio pratico, ho coordinato i PAI (Piani di Assistenza Individualizzati) per un ente pubblico da quando ancora i PAI non esistevano e li proposi allora con altro nome ed attraverso un mio progetto nato nel rilevare mancanze sul campo. Istituii questa microcellula progettandone gli interventi in maniera gruppale, multidisciplinare in quanto i casi erano multidimensionali (mente, corpo, ambiente). Ma i professionisti vari comunicavano in gruppo, attorno ad un tavolo, individuando comuni obiettivi, volti al ben-essere e stabilendo tempi e modalità di verifica della bontà degli interventi, non ritenendoli mai aprioristicamente validi o standardizzati, ma degni invece di verifiche in base agli obiettivi condivisi nei gruppi. Il contesto veniva ad essere anche un contesto di formazione permanente, in cui ognuno accresceva le sue competenze. Purtroppo, potei svolgere il lavoro in quella modalità solo con quell’ente pubblico, quando passai al privato, o meglio, al terzo settore che, per quanto se ne dica, si comporta come fosse for profit, certe modalità operative vennero ritenute obsolete e ci si diresse verso un mero asservimento burocratico di cartelle svuotate di un senso semantico, ma che soddisfacevano le modalità di un controllo retorico per non dire peggio. Oggi, il sociale è messo per obbligo di assolvenza procedurale, ma non ha nulla o poco di funzionale. La mia impressione è che si stia in pratica retrocedendo verso un sistema che torna a percepire l’anziano, colto nella sua improduttività, come un peso, un ingombro, un intralcio ad una vita sempre più macchinica e strutturata e sempre meno relazionabile.


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