Pannelli Sociali

Per una sociologia agita ed agente

Animazione musicale

Social

 

1. Senso, emozione, significazione

(Gino Stefani)

Nell’esperienza musicale, in principio è il SensoSenso è il vissuto, ossia il ‘sentito’ in tutti i sensi, del termine e del soggetto. Udito, percepito, colto acusticamente nell’evento sonoro, nell’oggetto musicale; colto, capito in relazioni e riferimenti cognitivi e culturali; sentito nell’immaginazione, in elaborazioni fantasmatiche; ri-sentito, vissuto nel cuore ossia nell’affettività; sentito in tonicità muscolari, in propriocezioni motorie (con la percezione profonda del movimento), in sinestesie (come quando alla percezione di un suono si abbina quella di un particolare colore o suono).
Il Senso è sentirsi, trovarsi in uno stato (psicofisico, d’animo, di coscienza…); provare, avvertire, avere ma anche essere colto o preso da un senso, una sensazione, un sentimento di…; avere voglia di…; avere l’impressione che…; avere l’impressione di essere, di diventare…; sentirsi immedesimato con… E quando diciamo: questa musica mi piace, mi prende, mi interessa, mi dice molto (o viceversa: non mi piace, non mi dice niente, mi lascia indifferente), queste espressioni sono usate come equivalenti; dicono, finalmente: questa musica ha Senso per me.
In questo orizzonte, che riflette l’esperienza comune e quella degli artisti, significazione ed emozione sono due aspetti di una stessa sostanza che è il Senso.
L’emozione musicale è semplicemente il Senso in quanto vissuto nel profondo (nel corpo) e non ancora elaborato a livelli (mentali) di espressione. Molto Senso è molta emozione, anche se non vi è una corrispondente elaborazione espressiva, di significazione. Anzi, sono esperienza comune le ‘intense emozioni musicali’, quando il Senso colpisce tanto che ‘mancano le parole’ e ‘non si riesce a dire’: il troppo Senso, cioè, fa tacere la significazione, fino a ‘perdere i sensi’ ossia la capacità di elaborare conoscenza. Questa ‘emozione’ si potrebbe ugualmente bene chiamare (con Blacking, 1986) musicalità, o ispirazione, o (con Bachelard, 1960) rêverie.
La significazione è il riverbero, la proliferazione, la proiezione all’esterno del Senso: è il Senso in quanto espresso o esprimibile – potenzialmente in modo illimitato. È dicibile il Senso – sempre solo in parte – per metafore ovvero cifre che comprendono (implicano) l’oggetto musicale nella sua totalità in una veduta semantica ovviamente particolare: come quando i compositori danno un titolo a un’opera; o è indicabile per ostensione di ‘campioni’: parti, frammenti, citazioni del testo (oggetto, evento) musicale che rendono l’atmosfera, il sound dell’opera o dello stile. Tali sono o possono essere, di solito, i ‘temi’ o ‘motivi’ principali – come l’attacco della Quinta di Beethoven – ma anche ‘figure’ melodiche, ritmiche, armoniche, timbriche, che l’interprete sente intensamente pregnanti, come il celebre accordo del Tristano, o il sound della voce di Armstrong o di Sting.
Quanto al significato, nel nostro contesto questo termine assume il valore ristretto di correlativo di ‘significante’: come sarebbe una data accezione di un vocabolo o, in musica, la denotazione codificata di una data ‘figura’ (un segnale acustico convenzionale o un jingle pubblicitario) o il funzionamento sintattico di un elemento in un sistema musicale (ad esempio l’intervallo). In breve: significazione è di un oggetto estetico-artistico, significato è di un elemento semio-linguistico.

2. Livelli del senso in musica

Noi vediamo tutti i giorni la gente usare la musica con naturalezza, senza difficoltà, in tanti comportamenti individuali e tante pratiche sociali: cantare, suonare, ballare, ascoltare distrattamente ma anche con estrema concentrazione, sonorizzare ambienti, situazioni, azioni, immagini. Si può dire che la gente si comporta con la musica (almeno quella con cui è abitualmente a contatto) come con una lingua materna, un ‘linguaggio’ a tutti gli effetti: la usa in modo efficace, per vivere ed esprimere e comunicare, tutto sommato abbastanza agevolmente un Senso dove emozione e significazione e, all’occorrenza, significato stanno in perfetta continuità.
Questo implica che il senso della musica si annida, si articola e si sviluppa in tanti livelli, tante dimensioni, che sono però in continuità fra loro.
Ascoltiamo un evento musicale, il celebre inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven. Che cosa sentiamo? a) Alcuni suoni piuttosto forti, come dei colpi, i primi più alti e brevi, l’ultimo basso e prolungato; il tutto ripetuto; b) un richiamo, come un battere alla porta (ossia una certa Pratica Sociale), o una rappresentazione scenica di questo; c) un intervallo di 3a discendente, tre suoni di una certa durata suonati dagli archi all’ottava, rinforzati dai clarinetti; un breve motivo, ripetuto (Tecniche Musicali); d) un attacco sinfonico improvviso, potente, drammatico, beethoveniano (uno Stile); e) l’inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven (un’Opera).
Dove comincia la musica, in questa esperienza? Per la critica musicale, dall’Opera o dallo Stile. In Conservatorio comincia dalle Tecniche Musicali. La gente comune, che pure ha percepito il frammento come musica, risponde di aver sentito un richiamo, un segnale, ossia una certa Pratica Sociale Ma per capire questo, occorre sentire dei suoni con qualità di ‘colpi’, in una certa serie e con una certa durata. È precisamente quello che ha sentito anche Beethoven, quando ha detto di questo motivo: “Così batte il Destino alla porta”.
Dunque, sentire un evento sonoro come un insieme di qualità sensoriali e di forme percettive (alto, basso, grosso, energico, squillante, discendente, chiuso…) è certamente necessario per poter accedere ai livelli ulteriori di senso; ma non è solo una condizione preliminare, pre-musicale, è già musica.
Alla ‘base’ della musica troviamo quindi l’esperienza bio-psico-antropologica della specie umana con i suoni: la capacità di sentire il suono con tutti i sensi, le propriocezioni, le forme percettive: alto o basso, morbido o ruvido, caldo o freddo, chiaro o scuro, ovattato, pungente, a punti, a blocchi, spesso, teso, variabile, simmetrico, in crescendo. Troviamo, si potrebbe dire, la musica della specie, la musica humana: che è dire i potenziali musicali umani di base, la musicalità umana radicale, l’homo musicus.
Nella nostra prospettiva teorica, che proiettiamo immediatamente nella prassi musicale artistica, musicologica, educativa, animatoria, terapeutica, i diversi livelli di articolazione del nostro schema sono – come nell’esperienza comune del motivo beethoveniano – strettamente interconnessi.

3. Aree della musicalità umana

La comunicazione in musica, comunque la si intenda (lo vedremo più avanti), parte, si sviluppa e termina in un soggetto umano, con e nella sua identità e competenza musicale, la sua musicalità.
Trovo utile individuare tre aree di musicalità costitutive di una identità musicale globale, compresenti e interagenti in ogni esperienza e storia umana: le aree universaleculturaleindividuale.
a) L’area universale comprende le memorie comuni prenatali ma anche, oltre l’umano, gli archetipi cosmici che in-formano anche le strutture del corpo.
Alla base l’homo musicus è costituito, semplicemente, dal Corpo sensoriale animato. Il corpo che produce musica di per sé. Il verbo sentire, per esempio, ha a che fare con l’udito. Però il sentire è in tutti i sensi, appunto. Così il suono è una vibrazione che noi percepiamo sia come vibrazione interna, sia come vibrazione esterna in virtù di un orecchio ‘aereo’, dalla nascita in poi, che ci permette di cogliere quelle vibrazioni del suono che oscillano nell’aria. Ma precisiamo: quelle vibrazioni non sono il suono; suono è il senso che noi diamo all’esperienza di quelle vibrazioni.
In questa esperienza hanno una funzione essenziale le memorie autoplastico-sonore. Attraverso le variazioni del tono muscolare noi rispondiamo agli stimoli sensoriali che ci vengono dall’ambiente, cambiando forma (contrazione, rilassamento, rigidità) secondo le situazioni (luce, calore, rumore, ecc.). Ogni volta si evocano per analogia memorie profonde, perché la memoria tonico-muscolare è la più antica e risale alle prime sensazioni nell’ambito prenatale di sincronia, sintonia, sinfonia con l’ambiente psicofisico uterino.
Si può considerare questa iniziazione emotonicofonica la base di una comunicazione umana, oltre le differenze. Ci si intende fra esseri umani, oltre la parola o gesti culturali, attraverso il tono muscolare che regola anche la fonazione e permette quello scambio profondo intuitivo con e del neonato in un sistema intonativo che predilige nell’oralità la musicalità pre-verbale della parola e non il significato convenzionale.
L’ontogenesi e lo sviluppo dell’avviluppo dell’Essere umano, dalla con-centro-azione embrionale all’articolazione di sé psico-senso-corporea, attraversa fasi evolutive che si possono tradurre in stili espressivi rilevabili in tutte le tracce umane, anche musicali (Guerra Lisi – Stefani, 1999).
Un altro modello universale (anche se inevitabilmente formulato in categorie musicali occidentali) è quello del corpo musicale tripartito. Dove sentiamo la musica? In tutto il corpo; ma il coinvolgimento corporeo è diverso secondo i tipi di musica. Prendendo coscienza del corpo tripartito in termini bioenergetico-musicali, noi sentiamo che:
– la parte superiore del corpo (testa, braccia verso l’alto) segue la linea melodica articolata: è la postura della bramosia come aspirazione-ispirazione; il flusso energetico va verso l’alto, facendo aprire le ascelle (per ascendere) in una metaforica assenza di gravità, come volontà, volo ideale dell’Essere; è l’esperienza della ‘Melodia’ come musica/affetto/voce;
– la parte mediana (plesso solare), che riceve direttamente e reagisce emotonicamente attraverso gli apparati elaboratori della respirazione, digestione, assimilazione, sente i valori timbrico-cromatici ossia il sound del musicale in sfumature esprimibili pittoricamente: sound come musica/sinestesia;
– la parte inferiore (genitali, mani in attività percussiva o materica e arti inferiori) sente il ritmo e con esso scarica l’energia fuori del corpo, in un flusso che è verso il basso e che nella scarica a terra riattinge energia che ricarica l’organismo psicofisico. ‘Ritmo’ come musica/energia/motricità.
Infine, con la mente, che è il potere di proiettarci fuori del corpo, sentiamo-pensiamo la musica come forma (struttura, organizzazione, insieme di relazioni, ecc.).
Per questa via – dal corpo, la ‘base’ ultima della musicalità – arriviamo quindi a pensare l’esperienza musicale in quattro dimensioni fondamentali, corrispondenti a quattro modi di vivere la m., ossia di essere musicali.

b) L’area culturale è quella della competenza musicale specifica di una data cultura-società, elaborata sulla precedente base bio-antropologica con convenzioni e codici suoi propri.

c) L’area individuale risulta dall’appropriazione delle due aree precedenti da parte di un soggetto umano – ciascuno di noi – in base a una sua storia personale.

4. Forma

Con la mente, sentiamo-pensiamo la musica come forma, la dimensione o presa di suono che comprende gli aspetti più propriamente cognitivi dell’esperienza musicale.
La musica è flusso: dare confini a un flusso e articolarlo, delineare e definire entità dentro il flusso, è dare forma: e la forma(tt)ività, la form/azione è capacità tipica della mente.
Questo avviene già in operazioni elementari dell’homo musicus, come dare al suono una forma nello spazio, individuando nel ritmo il punto, nella melodia la linea, nel sound la superficie.
Ma una forma non è necessariamente di cose tangibili: ad esempio, anche le emozioni hanno una forma: la rabbia, la paura, la tenerezza, non suggeriscono infatti forme diverse? Esse sono anche forme musicali: sono l’impronta emotonica che una musica lascia nell’ascoltatore, una forma-orma per onde di pressione, che ci impressiona, e questo dalla emo-musicalità della vita amniotica in poi.
È così che pensiamo la forma: densità di senso definita, traccia delineata a tutti i ‘livelli di articolazione’, che sono per ciò stesso livelli di composizione. E ci si renderà conto che le origini, i modelli, i metodi, le tecniche, i percorsi della composizione sono di una molteplicità e varietà tale che nessuna trattazione può contenere, e che possiamo solo esemplificare.
L’homo musicus è sinestesico, e la sinestesia è capacità di risonanza con tutti i sensi alle diverse qualità della materia, che è dire capacità di armonizzarsi con il cosmo. Per cominciare, con i quattro Elementi, metafore sinestesiche dei comportamenti psicosensomotori, che non di rado si possono rintracciare come andamenti caratteristici di uno stile, un’opera, un autore (ad esempio: l’Acqua per Debussy, l’Aria per Sciarrino, il Fuoco per note opere di Stravinskij,…). E poi con ogni ‘struttura che connette’, percepita nel mondo inorganico e in quello organico: forme di incremento (aggregazione, compattazione, ingrandimento, sviluppo,…), di regolarità e simmetria o di segno contrario, a stella o a galassia, a onda o a esplosione, e così via.
E ancora: forme generate da esercizi primari di potenziali umani elementari, psico-sensomotori o mentali: intorno all’energia e al movimento, a categorie come ripetizione e variazione, a modelli di organizzazione formale dello spazio e del tempo, sino alle forme ‘logiche’ (canoni) che hanno fatto apparentare Bach (e la dodecafonia) a Escher e Gödel. E poi forme modellate su pratiche sociali: lavoro, riti e cerimonie (entrata, marcia, applauso finale, inni, canti liturgici, meditazione,…), pratiche ludiche e spettacolari (danza, rappresentazioni teatrali, gara), linguaggio orale e scritto (recitativi, dialoghi, sviluppi discorsivi della forma Sonata). Come esempio sintetico, che attraversa tutti i livelli di articolazione, basti pensare ai tanti modi in cui un brano musicale può cominciare (richiamare l’attenzione, creare l’atmosfera, esposizione, qualcosa che nasce, messa in moto, attacco di sorpresa…) e finire.
Questa densità si ritrova, inevitabilmente, anche in quelle che nel linguaggio musicale si chiamano propriamente ‘Forme’ e, più in generale, nelle Tecniche Musicali, che il sapere specialistico dominante (nei Conservatori, nelle scuole, nei manuali) tende a pensare e presentare come ‘pure’ emanazioni del pensiero. Si ritrova, questa densità, nel sound, nel ritmo, nella melodia. Ma è presente nell’organizzazione della scala (già, questa, una metafora), nel sistema tonale (un gioco di forze – polarità e attrazioni – analogo a quello di un sistema planetario), e nelle forme più rigorose, i ‘canoni’ e le fughe.
Ed è presente, questa densità del Senso – che include un corpo sinestesico, sensomotorio, emozionato – nel nucleo forse più forte e formalizzato del ‘linguaggio musicale’: gli intervalli. A rendere la 6a pertinente al senso ‘voce del cuore’ in una serie infinita di brani musicali, da Libiamo! a Love story a Buona notte fiorellino, concorrono certo le sue proprietà grammaticali scalari-tonali, ma anche quelle del gesto vocale e del tono emotivo e muscolare che sottende il ‘movimento’ simbolico dell’intervallo. Analogamente si può dire per l’8a, l’intervallo ‘potente’ che ritroviamo in tanti gesti vocali e strumentali grandiosi, imponenti, enfatici, assoluti, dagli appelli del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart, allo Scherzo della Nona Sinfonia di Beethoven, ai gridi di guerra, di rabbia, d’orrore di cui è pieno il Trovatore verdiano. E così per la 3a, intervallo del ‘primo canto’ che stilizza insieme il movimento dondolante, il richiamo familiare, la cantilena infantile; e così via, con maggiore o minore evidenza quanto maggiore o minore è la presenza del corpo, in tutti gli intervalli.
Dunque, al cuore della teoria – cioè della mente – musicale ritroviamo il corpo sensoriale dell’homo musicus. Con questa consapevolezza, niente del musicale sarà per l’uomo troppo tecnico e astratto, niente dell’umano sarà alieno dal musicale.

5. Comunicazione

L’esperienza musicale è evidentemente organizzata da tantissimi codici; e in questo senso comunicare implica sia codificare/decodificare secondo codici già istituiti; sia inventare e riconoscere nuovi codici.
In senso stretto, ad esempio nella teoria di Eco, il codice è una strutturazione e/o correlazione di due campi od ordini che si rinviano reciprocamente come espressione e contenuto, ovvero significante e significato.
Può essere semplicemente la (regola di) strutturazione di un insieme di relazioni funzionali tra le parti e il tutto (come le regole del contrappunto). Oppure è una correlazione sopraggiunta tra un’espressione sonoro-musicale e un contenuto entrambi già costituiti (il suono di un clacson e certi comportamenti del traffico stradale, un film muto e musiche di Chopin, il canto gregoriano e le immagini culturali delle cattedrali del Medioevo). O ancora, una correlazione strutturante fra un campo già strutturato e un altro ancora informe e che viene quindi conformato al primo. È ciò che avviene quando il libretto del Trovatore ispira a Verdi la musica di quella sua opera; o all’inverso nel film Fantasia, dove la musica classica ispira a Disney i cartoni animati. Infine il codice può essere una strutturazione correlante simultaneamente due campi ancora informi. Così i codici della danza formano e correlano insieme e in modo omologo (cioè con le stesse leggi agogiche, ritmiche, metriche, ecc.) le figure coreutiche e la musica; e così il codice espressionistico dà forma al Pierrot lunaire di Schoenberg e nello stesso tempo e con le stesse matrici fa nascere una nuova Weltanschauung culturale.
La presenza del Senso, anche solo estetico, è già garanzia di comunicazione, del soggetto umano che si esprime con e nella materia sonora, dei soggetti umani che entrano in comunione mediante quel senso. Una prova ulteriore è la comprensione reciproca che si instaura fra questi soggetti quando comunicano verbalmente, o in altri modi, quell’esperienza comune.
Ma la comunicazione può crescere da semplice funzione, sempre più o meno implicita nell’esperienza musicale, a progetto intenzionale. La significazione tende allora a farsi più articolata ed esplicita; per questo occorre ridurre l’ambiguità e polivalenza dei potenziali del senso musicale, mettendo in opera opportune strategie e tattiche. Tattiche di compresenza e convergenza di contesti e circostanze: non è quello che vediamo nell’inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven? Le qualità sonore elementari (dei ‘colpi’), la figura ritmica (del ‘battere’), l’intervallo del richiamo, lo stile ‘titanico’, un inizio di sinfonia così improvviso e imprevisto, tutti questi aspetti convergono come fattori di comunicazione di un senso di cui condividiamo la riespressione nella frase verbale “Così batte il Destino alla porta”. Lo stesso si può dire di ogni esperienza musicale che sentiamo come comunicazione.
Ovviamente la canzone, il melodramma tradizionale, la cosiddetta ‘musica a programma’, le musiche con titoli metaforici; ma anche la musica in pubblicità e nel film (Colonna sonora); e poi anche tanta musica classica, come l’inizio della Piccola musica notturna di Mozart, dove tutto concorre a comunicare il senso di un ingresso dei musicanti, o quel suo tempo di una Sonata per pianoforte dove il ritmo incitativo, la figura melodica arricciata, le ripetizioni in crescendo e gli svolazzi di abbellimento cooperano a farla denominare ‘Marcia turca’. Ma prima ancora, già per comunicare il senso di ‘melodia’ occorre la compresenza e convergenza di tanti fattori: tempo non veloce, registro medio, timbro non aspro, intensità moderata, non urtante, note legate, regime armonico semplice, ecc. Analogamente dicasi, fatti i debiti aggiustamenti, per il senso di ritmo e di sound.
Se poi, anziché al senso finale, guardiamo a un elemento musicale coinvolto in un progetto di comunicazione, noteremo che esso subisce, a opera del contesto e delle circostanze, un complesso processo di rinforzo, selezione, innovazione rispetto a un funzionamento ‘base’. Ad esempio, nel senso base di Lux aeterna di Ligeti c’è certamente un carattere ‘spaziale’: ma vedete come nel film 2001: Odissea nello spazio questo carattere si rinforza, si specifica, acquisisce tratti nuovi. E l’intervallo di 6a ha nel suo funzionamento di base un potenziale di senso di ‘voce del cuore’: un potenziale che nel motivo conduttore di Love story viene molto rinforzato dalla posizione emergente, dalla ripetizione e (per il modo minore, il tempo lento, l’andamento discendente, la ripetizione monotona, la storia triste narrata dal testo e dalle immagini) specificato come rimpianto; un potenziale che, nel brindisi della Traviata (“Libiamo nei lieti calici”), viene ugualmente rinforzato ma è specificato e innovato con un marcato carattere di euforia dal contesto musicale (forma maggiore e ascendente, velocità, ecc.) e dal contesto verbale e teatrale. Per cui si può ben dire, concludendo, che non è tanto la musica a comunicare, quanto l’uomo a comunicare con la musica. (Gino Stefani)

 


 

 

 

Il silenzio è il prato del suono. In quel prato ondeggiano vibranti sonorità melodiche, rumori, simboli. Il simbolo definisce un’assenza. Il silenzio in questa accezione è dunque una pre -condizione al suono. E’ un foglio candido su cui imprimiamo artefatti linguistici che colmano e definiscono di significati luoghi che altrimenti non potrebbero avere referenti condivisi. Il suono vive in funzione del silenzio.

La musica spesso definisce un contesto, prepara una scenografia che così viene ad essere meglio condivisa dagli attori, è spesso, lo sfondo tangibile che accomuna il nostro relazionarci e predispone gli animi alla comprensione. Se la lingua in un certo senso divide (i veri confini sono spesso linguistici), la musica unisce.

Pensiamo a due innamorati che si dichiarano il loro amore. Pensiamo che lo facciano, ad esempio, in mezzo all’assordante rumore del traffico cittadino, in mezzo a roboanti motori ed a suoni di clacson. Quindi immaginiamoci gli stessi innamorati che si dichiarano il loro amore con un sottofondo magari mozartiano.

Ecco dunque che si comprende come la musica possa facilitare il rapporto creando un contesto ottimale alla relazione che si intende instaurare. La musica è linguaggio, un linguaggio estremamente ricco che parla all’uomo nella sua interezza.

Essa parla:

1) AL SUO CORPO attraverso stimolazioni sensoriali che suscitano gesti e risposte motorie;

2) AL SUO MONDO AFFETTIVO perché evoca sentimenti, ricordi, emozioni e associazioni;

3) AL SUO MONDO INTELLETTIVO per il fatto che attiva la memoria, l’attenzione i giudizi..;

4) AL SUO MONDO RELAZIONALE in quanto ascoltare musica o produrre dei suoni può essere un’esperienza condivisa con altri, che permette la socializzazione, che consente scambi di esperienze, permette in una parola la comunicazione, cosa fondamentale per l’anziano.

Nella prima fase di quello che con un minimo di azzardo andrei a definire “percorso musicoterapico”, ci si limita quasi unicamente all’ascolto passivo della musica. Bisogna dire che, l’ascoltare, ha come effetto l’attivazione del sistema nervoso. A livello affettivo gli effetti benefici sono da subito riscontrabili. Ponendomi su di un piano comunicativo, nel momento in cui si ascolta un brano, rimane estremamente facile far esternare sentimenti e frammenti di vissuto anche in anziani molto chiusi. Di fondamentale importanza è la scelta dei brani che andiamo a cantare. Essi infatti dovranno essere parte pregnante di quel vissuto caratterizzante la cultura del luogo, questo per lo meno nei primi momenti del percorso sonoro-animativo. Ciò consentirà che la relazione tra anziano e animatore si instauri su di un piano fiduciario. I brani che eseguo con la mia chitarra seguono ogni volta la stessa scaletta, ciò consentirà ai più disorientati di avere un punto di riferimento spazio-temporale che alleggerisca la paura di perdersi. Ciò non toglie che, essendo un percorso, lungi dal voler essere statico, non abbia un’evoluzione nel tempo e nella complessità ritmica e nella varietà del genere. Questo ritengo vada fatto gradualmente, nel rispetto dei tempi dell’utente. Devo dire che, fatte le dovute eccezioni, l’elemento sonoro viene accolto favorevolmente dalla quasi totalità dei pazienti. La musica pare infatti riattivare, nei pazienti geriatrici affetti da demenza, quell’imprinting arcaico che gettava le fondamenta nella fase uterina.

Di particolare rilevanza a questo proposito sono gli studi condotti da R.Benenzon che, dopo l’asserzione di un mondo sonoro unico e soggettivo, definisce il concetto di ISO (Identità Sonoro musicale ).

L’ISO viene definito da Benenzon come “l’insieme infinito di energie sonore, acustiche e di movimento che appartengono ad un individuo e che lo caratterizzano. L’ISO rappresenta il vissuto sonoro, l’immagine sonora di ogni individuo”.

Come ben sintetizza Francesco Burrai: Le energie sonore contenute in ogni individuo definiscono quattro tipologie di ISO:

-ISO universale, con energie sonore arcaiche, ancestrali, ereditate geneticamente nei millenni, contenute a livello inconscio. Un ritmo basale, come quello binario, (sistole – diastole, inspirazione – espirazione), il rumore del vento, il rumore dell’acqua, ninna nanne, appartengono all’ISO universale.

-ISO gestaltico, con energie sonore prodotte dal momento del concepimento, contenute a livello incoscio. La voce della madre, il flusso sanguigno, i rumori intestinali, i suoni esterni portati dal liquido amniotico, i suoni del corpo della madre, sono impressi nell’ISO gestaltico.

-ISO complementare, con energie sonore e musicali prodotte dalle influenze ambientali e dinamiche sull’ISO gestaltico.

-ISO gruppale, con energie sonore e musicali prodotte nella fase di interazione all’interno di un determinato gruppo. Rappresenta la sintesi di tutte le identità sonore dei componenti di un gruppo umano.

La metodologia musicoterapeutica basata sul principio dell’ISO, ricerca l’efficacia di una comunicazione nel passaggio di una energia comunicativa adeguata, armonica ed equilibrata, prodotta da un oggetto coporeo – sonoro – musicale, direttamente proporzionale all’avvicinamento di tale energia all’ISO musicale del soggetto.

La musicoterapia basata sul principio dell’ISO cerca una sintonizzazione, un rispecchiamento, una rispondenza empatica con l’identità sonora del soggetto.

 

ModelloBenenzon 


 

 

Lo strumento di comunicazione che ha potere terapeutico in una relazione con il paziente è definito oggetto intermediario.

L’oggetto intermediario non deve creare reazioni di allarme, deve essere di esistenza reale, malleabilie in ogni situazione, è un trasmettitore oggettivo, adattabile ai bisogni del soggetto, identificabile come oggetto di relazione intima con il proprio se, strumentale come estensione personale, facilmente riconoscibile. L’oggetto intermediario sono gli strumenti musicali e il suono. Lo strumento musicale che prevale nella scelta dei soggetti è definito oggetto integratore, il quale è espressione dell’ISO gruppale ed è connesso all’ISO culturale.

Va detto comunque che il concetto benenzoniano di ISO che ha convogliato su di me una certa rispondenza, è di natura prettamente musicoterapeutica che è differente dal fare animazione usando tra gli altri lo strumento sonoro.

Insomma, animare attraverso l’elemento sonoro non è ugual cosa che fare musocoterapia. L’elemento sonoro, nel fare animativo, tende piuttosto a riesumare un passato lontano. La riconquista avviene su di un piano simbolico, la musica rende presente ciò che è dentro di noi ma che è stato dimenticato.

Quante volte abbiamo sentito affermare: “questa musica mi fa rivivere”, ed è proprio a fronte di tale rivitalizzazione che l’elemento sonoro viene usato quale mezzo comunicativo ed espressivo privilegiato. Recenti studi hanno posto all’evidenza che, seppur la musica sia un linguaggio, essa, nell’ipotesi di una compromissione a livello cerebrale che comprometta il linguaggio parlato (afasia), di sovente non compromette il linguaggio e le competenze musicali. Questo trova una collocazione pertinente dell’elemento sonoro in un contesto in cui emergono deficit di ordine cognitivo che compromettono soprattutto memoria e linguaggio. Questo farebbe supporre la indipendenza dei sistemi cerebrali (moduli) per musica e linguaggio ma, tale ipotesi, soprattutto per l’aspetto funzionale dei due sistemi, risulta difficilmente supportabile. Comunque va ricordato che nel 1992 Swartz, Wolton, Crammer, Hantz e Frisina condussero un’analisi biocomportamentale utilizzando tecniche di mappatura del cervello in pazienti affetti da demenza senile. Pare, da questi studi, che le capacità di elaborazione musicale in questi soggetti, rispetto a quelle linguistiche, possono mantenersi in diverse parti del cervello e che, nell’evoluzione della malattia, siano le ultime a deteriorarsi. Ho avuto modo di constatare quanto, canti di gruppo condotti con strumento, e canti di gruppo in assenza di uno strumento di accompagnamento, abbiano, nei malati affetti da demenza senile, sortito maggiori effetti positivi sui secondi (solo canto) rispetto ai primi (canto con strumento). Questa mia constatazione, viene poi supportata da studi vari condotti da ricercatori. Fitzgerald-Cloutier (1992) pare sia arrivato alla stessa conclusione dopo aver osservato per diverso tempo i pazienti in raffronto ad un campione di riferimento. Sembra insomma che, l’elemento vocale, senza quindi accompagnamento strumentale, sia uno stimolo più semplice e diretto e quindi più adeguato alle abilità cognitive e relazionali delle persone affette da demenza senile.

L’operatore viene ad essere, il facilitatore, colui che anima o ri-anima antiche sensazioni. Occorre chiamare in causa il paziente frequentemente attraverso lo sguardo, il con-tatto, ed occorre che l’operatore si senta coinvolto nella situazione sonora. In questo modo è possibile un feed-back bilaterale coinvolgente e rigenerante una situazione ottimale.

Gli anziani affetti da demenza, hanno compromesse le funzioni cognitive e l’attenzione è una tra le funzionalità che sovente si deteriorano. E’ per questo che occorre spesso richiamarla attraverso procedure particolari. Occorre usare empatia, entrare in uno stato fiduciario, creare setting minimo dunque, per poter costituire una relazione appropriata ed efficace. Un buon Animatore, anima i bisogni, muove strategicamente verso una finalità orientata al “far fare”, non impone nulla e si accerta che gli interventi da lui messi in atto siano ben accolti dal gruppo. Instaura un rapporto particolare e privilegiato con l’ospite, giocando su questo piano con tutto sé stesso. Egli c’è. Anche in questo caso si nota quanta importanza abbia l’empatia, lo stato fiduciario, un setting minimo dunque, per poter costituire una relazione appropriata ed efficace.

Un buon Animatore, anima i bisogni, muove strategicamente verso una finalità orientata al “far fare”, non impone nulla e si accerta che gli interventi da lui messi in atto siano ben accolti dal gruppo. Instaura un rapporto particolare e privilegiato con l’ospite, giocando su questo piano con tutto sé stesso. Egli c’è. Mettere in uno stereo della musica e poi andarsene serve a ben poco. Piuttosto si resta assieme a loro, li si osserva, si raccolgono e si assecondano gli stimoli, anche i più impercettibili. Il battito semi nascosto di una mano sul ginocchio, il dondolare di una gamba, il canticchiare mentalmente il motivo percepito, sono tutte reazioni che devono indurre l’osservatore ad attuare per ognuno singolari strategie finalizzate al dar soddisfazione a bisogni il più delle volte non esplicitamente palesati.


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