Pannelli Sociali

Per una sociologia agita ed agente

Etnometodologia

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Harold Garfinkel (1967), Che cos’è l’etnometodologia, in P.P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 55-87.

L’Etnometodologia rivolge l’attenzione alle routine, alle interazioni face to face, alle conversazioni, alle spiegazioni di senso comune. L’analisi di queste pratiche sociali della vita quotidiana avviene mettendo in dubbio l’ovvio e considerando antropologicamente “strani” tutti gli assunti che vengono dati per scontati.

L’illustrazione analitica di uno degli esperimenti di Garfinkel può essere utile a chiarire questa premessa1. La proposta del sociologo, rivolta ai suoi allievi, consisteva nello scegliere un’interazione conversazionale e, a partire da questa, riportare, da un lato, ciò che era stato detto (il “segno”), dall’altro, ciò di cui si era parlato (il “referente”); detto altrimenti, il compito consisteva nel dare una spiegazione a ciò che veniva realmente inteso attraverso ciò che era stato detto, attribuire cioè un senso al segno, cercando di chiarire le espressioni indeterminate che gli interlocutori avevano comunemente compreso.

Perché dedicare tanta attenzione ad una situazione come questa che può essere considerata irrilevante? Garfinkel sostiene che proprio ciò che è considerato ovvio è la premessa indispensabile per l’azione, e che gli individui sono in grado di interagire tra loro solo perché evitano di interrogarsi su ciò che prendono per scontato: è questa dimensione tacita, più che un insieme specifico di norme e valori, a “tenere insieme” la società (cfr. Giglioli, 1984, p.149).

La sempre maggiore accuratezza richiesta nel corso dell’esperimento, generava negli studenti una resistenza al procedere per l’impossibilità del compito assegnato: di fatto, avrebbero potuto proseguire all’infinito con una diramazione sempre più fitta di argomenti. Da qui il senso ultimo dell’etnometodologia: comprendere “il modo di usare ciò che gli interlocutori avevano detto come metodo per stabilire ciò che avevano detto” (Garfinkel, 1983, p.82).

Quando si cerca di spiegare una data pratica, cioè di fornire un account, si realizzano gli stessi procedimenti messi in atto da chi produce e gestisce le pratiche stesse. La spiegazione consiste nell’individuare un ordine, ovvero nel rendere osservabile e razionale un fenomeno. L’interpretazione delle pratiche sociali è in realtà una caratteristica intrinseca, una sorta di prolungamento, delle stesse. Tra l’attività e la sua spiegazione si stabilisce così una relazione che Garfinkel chiama “riflessiva”: il modo in cui è strutturata la spiegazione verbale utilizza le stesse modalità di sense making della pratica ma al tempo stesso permette la concreta realizzazione dell’azione stessa. Quando si riconosce il senso e l’oggettività della situazione il modo in cui è organizzata diventa non problematico e quindi ovvio e dato per scontato2.

Quali sono dunque le tecniche utilizzate nella spiegazione? Una consiste nell’usare l’assunto dell’ “et cetera”: l’espressione “eccetera”, implicitamente afferma che si potrebbe continuare a dare dettagli all’infinito tuttavia, di fatto, non si sarebbe in grado di farlo3. La spiegazione inoltre è condizionata dal contesto della relazione: da un lato, chi riferisce non esprime gran parte di ciò che vuole dire ma lo dà per scontato come conosciuto dal suo interlocutore, dall’altro, chi ascolta tende ad aspettare che quanto apparentemente ora non ha senso sarà chiarito nel corso della spiegazione.

Un’altra questione riguarda l’impossibilità di distinguere tra espressioni indicali ed espressioni oggettive. Le prime, che sono dipendenti dal contesto, sono considerate elementi di disturbo per cui l’obiettivo delle scienze consiste nel distinguerle dalle espressioni oggettive. In realtà si tratta di un obiettivo irrealizzabile, perché non può esistere un concetto de-contestualizzato. Tentare di porre rimedio al carattere indicale dei discorsi sarebbe come tentare di togliere le colonne portanti di una costruzione per vedere meglio cosa sostiene il tetto. La spiegazione di una pratica infatti è a sua volta parte di una pratica sociale.

Per concludere, quell’“uomo pericoloso” di Garfinkel si lancia nella definizione di ciò che lui stesso ha fondato, l’etnometodologia, ma finisce, forse, per offrirci meno risposte di quante domande generi. Ad esempio, non è chiaro come l’etnometodologia, che ha portato allo scoperto il carattere fittizio delle pratiche sociali, e di conseguenza anche di quelle scientifiche, si proponga essa stessa come disciplina dotata di oggettività. Da dove provengono poi le precedenti categorie, tipizzazioni, e tutto ciò che ci permette di attribuire un senso? Garfinkel sembra non essersi posto questo genere di interrogativi.

Riferimenti bibliografici

Collins R. Teorie sociologiche, (1988), Bologna, Il Mulino, 1992.

Dal Lago A., Giglioli P. P., “L’etnometodologia e i nuovi stili sociologici”, in Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 9-51.

Garfinkel H., (1967), Che cos’è l’etnometodologia, in P.P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 55-87.

Giglioli P. P., “Una occasione mancata” in Rassegna italiana di sociologia, XXV, n.1, gennaio-marzo, 1984, pp. 143-151.

Fele G., Etnometodologia. Introduzione allo studio delle attività ordinarie, Roma, Carocci, 2002.

1 La prosa di Garfinkel risulta infatti ardua, a tratti ridondante e “parsonsiana” (l’allievo, almeno stilisticamente, non avrebbe deluso il maestro): per questo è opportuno partire da un esempio concreto.

2 In una delle ricerche presentate da Garfinkel alcuni studenti dovevano decidere come codificare le informazioni contenute nelle cartelle cliniche dei pazienti di una clinica psichiatrica. Il loro obiettivo era quello di individuare quali caratteristiche dei pazienti erano associate con il tipo di percorso che veniva da loro intrapreso dal momento del primo contatto con la clinica fino alla dimissione. Per fare questo dovevano assumere di conoscere già il modo in cui la clinica funzionava: quindi per capire come funzionava la clinica dovevano dare per scontate una serie di informazioni che si fondavano sull’assunto di sapere già che la clinica funzionava in un certo modo. La riflessività del procedimento si riferiva al fatto che per comprendere i singoli elementi li dovevano riferire a un qualcosa di più generale la cui conoscenza era data per scontata ma che in realtà non si conosceva.

3 La pratica dell’et cetera quindi permette di circoscrivere e ritagliare un segmento in “un flusso di esperienze infinito in estensione e in profondità e infinitamente mutevole” (Marradi, 1984, p. 9) escludendo dal frame in cui ci si trova una parte della realtà e quindi permettendo di orientarsi e di agire. Senza l’assunto dell’et cetera non sarebbe possibile la conversazione che non potrebbe proseguire.

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