Pannelli Sociali

Per una sociologia agita ed agente

Alzheimer, una malattia che debilita il paziente e chi lo assiste.

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Ho già avuto modo, anche in questa sede, di parlare di demenze senili. Una tra le più importanti, ma forse anche una tra le più sconosciute da un punto di vista etiologico è, per l’appunto, l’Alzheimer, o meglio detta “morbo di Alzheimer”, scoperta nel 1906 dal neuropatologo e psichiatra tedesco Alois Alzheimer. Come per altre malattie, una su tutte l’HIV, anche il morbo di Alzheimer ha avuto una rilevanza mediatica ed è stata portata alla conoscenza delle masse, dopo che testimonial celebri portarono a conoscenza della malattia di cui erano portatori indirizzandosi verso una ribalta delle cronache ed all’attenzione del sistema di ricerca scientifica mondiale. Diciamo che, il più autorevole testimonial, per ciò che attiene l’Alzheimer, fu il presidente americano Ronald Regan. Regan infatti, pur consapevole di alcune mancanze quotidiane che lo assillavano, tentò di nasconderle al pubblico, ma un giorno, ad una conferenza stampa, allorquando alcuni giornalisti chiesero lui cosa ne pensasse di Nixon e dello scandalo “watergate”, egli rispose: “Perdonatemi, non ricordo. Alla mia età la memoria non è più buona come un tempo”. Successivamente Regan, dopo essersi consultato con la moglie Nancy, decise di rendere pubblica la sua malattia. Così, davanti ad un vasto pubblico ed alle televisioni ebbe a dire: “La mia strada si avvia verso il tramonto.. ho l’Alzheimer”.

Da questo momento la parola alzheimer entrò nel linguaggio comune. Interessò la ricerca scientifica mondiale.

Il problema ovviamente va contestualizzato.

In Italia, gli ultrasessantenni sono circa il 22% contro una media europea che è del 19%. Un over ottantenne su 4 è affetto da demenza. Il World Alzheimer Report riporta che il numero attuale di 47 milioni di persone affetti da demenza è destinato a salire, a causa dell’invecchiamento della popolazione, a 131 milioni entro il 2050. A farsi carico del problema sono soprattutto i familiari ed è un problema, quello delle persone affette da demenza, che coinvolge chi sta loro attorno, 24 ore su 24. Rispetto al 2010, a livello mondiale si è registrata una crescita del 35 per cento, mentre in Italia si stima che la demenza colpisca 1.241.000 persone. Quando parliamo di Alzheimer, o comunque, quando ci riferiamo ad una demenza senile, parliamo di un processo degenerativo che colpisce progressivamente le cellule cerebrali, provocando il declino progressivo e globale delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità e della vita di relazione, sia del malato sia dei familiari che si occupano dell’assistenza.

Si è detto che, per ciò che attiene a certe malattie, è fondamentale mettere in atto una “cultura della solidarietà” e che ponga come punto cardine, il valore della relazione.

L’Alzheimer si presenta gradualmente con la perdita di memoria, difficoltà nei movimenti, perdita della capacità linguistica, difficoltà a riconoscere oggetti e persone. La diagnosi di Alzheimer è difficile perché questi sintomi si confondono con quelli tipici di altre forme di demenza.

Sintomi di Alzheimer

I sintomi tipici dell’Alzheimer si presentano gradualmente nel decorso della malattia e comprendono:

  • Perdita di memoria;
  • Disorientamento spazio-temporale;
  • Alterazioni dell’umore;
  • Mutamenti della personalità;
  • Agnosia ossia difficoltà nel riconoscimento degli oggetti;
  • Afasia ovvero perdita delle capacità linguistiche;
  • Aprassia ossia incapacità di movimento e coordinazione;
  • Difficoltà di comunicazione;
  • Aggressività;

Può essere interessante, per il proseguo del ragionamento, prendere atto di alcuni dati che il Censis mette all’evidenza, ponendo in risalto la figura del “caregiver”, di colui cioè che effettivamente si prende cura del malato:

“Il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore al giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora e rispetto a dieci anni fa tra loro è triplicata la percentuale dei disoccupati (il 10% nel 2015, il 3,2% nel 2006). Il 59,1% dei caregiver occupati segnala invece cambiamenti nella vita lavorativa, soprattutto le assenze ripetute (37,2%). Le donne occupate indicano più frequentemente di aver richiesto il part-time (26,9%). L’impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne: l’80,3% accusa stanchezza, il 63,2% non dorme a sufficienza, il 45,3% afferma di soffrire di depressione, il 26,1% si ammala spesso.”

Ad assistere i malati sono soprattutto figli e badanti. Pur essendo sempre i figli dei malati a prevalere tra i caregiver, in particolare per le pazienti femmine (in questo caso i figli sono il 64,2% dei caregiver), negli ultimi anni nell’assistenza al malato sono aumentati i partner (sono passati dal 25,2% del totale del 2006 al 37% del 2015), soprattutto se il malato è maschio. Questo dato spiega anche l’aumento della quota di malati che vivono in casa propria, in particolare se soli con il coniuge (sono il 34,3% nel 2015, erano il 22,9% del 2006) o soli con la badante (aumentati dal 12,7% al 17,7%). Nell’attività di cura del malato, i caregiver possono contare meno di un tempo sul supporto di altri familiari: nel 2015 vi fa affidamento il 48,6%, mentre nel 2006 era il 53,4%. La badante rimane una figura centrale dell’assistenza al malato di Alzheimer: ad essa fa ricorso complessivamente il 38% delle famiglie. La presenza di una badante ha un impatto significativo sulla disponibilità di tempo libero del caregiver. Se complessivamente il 47,8% dei caregiver segnala un aumento del tempo libero legato alla disponibilità di servizi e farmaci per l’Alzheimer, tra chi può contare sul supporto di una badante la percentuale cresce di oltre 20 punti percentuali (68,8%) e di circa 30 punti nel caso in cui il malato usufruisca della badante e di uno o più servizi (77,1%).”

Questi dati vanno sostanzialmente a quantificare la fatica e la compromissione cui vanno incontro coloro i quali si devono occupare del malato colto da una demenza e che, per questo, vedono modificarsi, anche a livello qualitativo, le relazioni ed i comportamenti conseguenti.

Data la non particolare efficacia dei rimedi farmacologici, con le demenze e nella fattispecie, con l’Alzheimer, si incentiva un sistema di buone prassi e terapie non farmacologiche. Faccio riferimento, a seconda dei casi, alla ROT (Riabilitazione, riorientamento alla realtà temporale) ed al Metodo Validation. Queste pratiche, vengono adottate, a seconda dei casi e dei soggetti, per consentire e riacquisire nel malato una certa serenità e dignità di vita. Anche la musica ha mostrato di possedere una certa valenza terapeutica dato che, da una mappatura del cervello si è mostrato che a livello di cellule cerebrali, l’area meno compromessa da una degenerazione cognitiva è proprio quella preposta al linguaggio musicale. (Musicoterapia e malattia di Alzheimer. A cura di, Alfredo Raglio, Gerardo Manarolo, Daniele Villani. Edito Ar-Te)

Da questo si evince che una certa formazione indirizzata alle buone prassi verso i caregiver, sarebbe un buon metodo per far maggior chiarezza sulla malattia, ma anche per alleviare quel senso di solitudine che spesso pervade il caregiver stesso onde evitare che esso stesso incorra in logoramenti, ambientali e personali, fino a sfociare in sindromi, come il burn-out che getterebbero il caregiver in una condizione di non utilità o addirittura dannosità, sia per se stesso, che per la persona assistita.

Proprio con l’intento di offrire un aiuto solidale alle persone che hanno in carico una persona affetta da demenza, torno a proporre, tra le cose da fare, i gruppi di Auto Mutuo Aiuto.

I gruppi di Auto Mutuo Aiuto (AMA), aiutano le persone ad aiutarsi e sono formati da persone che condividono un problema o una condizione e si uniscono per un supporto reciproco e per trovare nuovi modi di affrontare le difficoltà di vita. Con-dividere con altri che vivono la stessa condizione è, anzitutto un modo per sentirsi meno soli e pure un modo per sedare l’ansia dovuta al fatto che e nel caso, può assalire proprio nel momento in cui le persone si sentono abbandonate ad una misera ed ineluttabile condizione che apparentemente sembrerebbe non offrire sbocchi. In questa accezione quindi, i gruppi AMA offrono un contesto di supporto, ma pure di formazione permanente, dato che i partecipanti, dovendo affrontare condizioni simili attraverso strategie mirate e singolari, possono offrire soluzioni, idee, rimedi.. uno all’altro in un contesto che è di condiviusione, di confronto e di reciproco supporto. In genere tali gruppi, nelle fasi iniziali, possono essere supportati da un “facilitatore” che conosca il problema e che conosca i principali indirizzi delle dinamiche di gruppo. In genere il facilitatore in questi casi ha il compito di rendere autonomo un gruppo che dovrà conquistarsi una propria autonomia e che, potrebbe via via inserire nel gruppo, esperti in materia o amministratori locali ..in quanto, la tempesta di idee potrebbe far emergere pure intenti progettuali o programmatici.

Mirco Marchetti


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